mercoledì 23 marzo 2011

LA MORATORIA PER SALUTARE IL NUCLEARE

Nucleare sì, nucleare no: alla fine è un nì che ha tutto il sapore di un no. Proprio oggi, il Governo ha approvato, in Consiglio dei ministri, la moratoria di dodici mesi sul programma nucleare. All'indomani del tragico tsunami in Giappone, il ministro Romani aveva parlato di una "pausa di riflessione" riguardo il nucleare, riprendendo l'opinione generale di altri colleghi europei. Nel volgere di alcuni giorni, la sindrome giapponese ha contagiato il ministro, per il quale qualche giorno fa era "inimmaginabile tornare indietro", e tutto il governo al punto da arrivare a meditare e - oggi - ad approvare lo stop di un anno al nucleare. In un precedente post, avevo ricordato come coloro che sostenevano con entusiasmo il ritorno al nucleare erano costretti ad un "difficile bagno d'impopolarità", sia per quanto verificatosi in Giappone, sia per la vicinanza della consultazione elettorale e del referendum. Sarebbe stata necessaria una dura prova di forza per continuare a restare convinti nuclearisti e sfidare l'elettorato alle amministrative e al referendum, forza che evidentemente il Governo ha smarrito per strada. A testimonianza della paura di affrontare un siffatto tema in una campagna elettorale decisiva, basti ricordare la colorita opinione del ministro dell'Ambiente Prestigiacomo - che, insieme al sottosegretario Letta e al ministro Romani, ha curato la regia della moratoria - pronunciata giovedì dinanzi a Bonaiuti e Tremonti al termine del discorso di Napolitano alle Camere riunite: "È finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne, ma in maniera soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese".
Gli effetti della moratoria sul nucleare sono tanti e forse non tutti noti. Il primo e più grande effetto è quello di bloccare la joint venture tra Enel e Edf, Sviluppo nucleare Italia, già saltata nel 1987 dopo l'incidente di Chernobyl, così come oggi è l'incidente a Fukushima a farla arenare. E pensare che l'accordo tra Italia e Francia era stato firmato nel 2009 in pompa magna tra Berlusconi e Sarkozy con la previsione di realizzare quattro centrali. L'opzione più rosea è che la società venga congelata, quella peggiore è che venga addirittura sciolta. E lo scioglimento vorrebbe dire rassegnarsi quasi definitivamente al nucleare in Italia, sarebbe il colpo di grazia ad una macchina che ha stentato a camminare e che ora potrebbe farsi in mille pezzi. E che fine farà l'Agenzia per la sicurezza nucleare presieduta da Umberto Veronesi, che ad oggi - per la verità - non è ancora operativa? Con lo stop al nucleare di questa mattina, viene archiviato anche il decreto legislativo sui siti di costruzione degli impianti atomici, che minacciava di essere un nuovo terreno di scontro tra Governo e regioni e che il primo si è guardato bene dal tenere vivo; sono state escluse, invece, dal provvedimento le procedure relative all'individuazione del sito di stoccaggio per le scorie. Lo stop, come ricordato prima, permette di rasserenare gli animi sul referendum di giugno: la paura più grande per il premier è che, in caso di forte propaganda a partecipare al referendum sull'onda dell'emotività, il quorum possa essere raggiunto facilmente andando ad inficiare l'esito degli altri due quesiti referendari, quello sulla privatizzazione dell'acqua e, soprattutto, quello sul legittimo impedimento, tanto caro al presidente Berlusconi.
Ma che cosa succederà tra un anno? Non si sa, nessuno è in grado di dirlo. Se tutto procederà come ora e il governo sarà quello attuale, ci troveremo ad entrare in un nuovo "ciclo elettorale" e quindi questo vuol dire non avventurarsi a parlare di nucleare per evitare qualsiasi riflesso negativo nelle urne. L'unica cosa che non sarà possibile fermare è il decommissioning, ovvero la disattivazione delle scorie nucleari, in parole povere le scorie ereditate dalle centrali atomiche chiuse dopo il referendum del 1987. Rizzo la definisce "una operazione titanica", considerando che il termine, precedentemente fissato al 2020, può slittare fino al 2026-2027 e che si parla di qualcosa come quattro o cinque miliardi di euro. "Somma che sarebbe stata sufficiente a costruire un paio di centrali atomiche", tanto per capirci.

giovedì 17 marzo 2011

NUCLEARE: LA RAGIONE PRIMA DI TUTTO


Una tragedia immane, di quelle destinate a restare nella storia. Il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone hanno fatto tremare i polsi, hanno lasciato una devastazione che è difficile descrivere, hanno colpito in maniera inaspettata un Paese che è abituato a fare i conti con simili eventi, ma che non era preparato a tanto. Il numero dei morti è indicativo, forse diecimila, ma può cambiare in ogni momento, è ancora difficile una stima precisa e questo non può che rattristire ancor di più. Eppure, di fronte a questo cataclisma, il popolo giapponese ha mostrato una compostezza e un ordine invidiabili, anche grazie al grande impegno del primo ministro Naoto Kan, uno per il quale la parola "tsunami", fino a venerdì, era una metafora buona per definire l'onda di impopolarità che lo stava sommergendo, il mare di cattive notizie riguardanti l'economia fino all'accusa di aver intascato contributi elettorali, accusa che proprio nella mattina di venerdì ha confermato lui stesso insieme alla decisione di non volersi dimettere, ma di procedere col mandato governativo. Dopo venerdì, Kan ha mostrato un piglio decisionista che lo fa paragonare a Rudy Giuliani: il suo 11 settembre è rappresentato dal terremoto e dallo tsunami, uniti al pericolo più grande: quello nucleare. Andando in tv e commuovendosi, mandando il suo braccio destro ad affrontare i media, forzando le opposizioni a stringersi in una grande coalizione, il primo ministro Kan ha mostrato un impegno deciso e senza fronzoli, un grande amore per il Giappone per il quale ha promesso di essere pronto a morire.


domenica 13 marzo 2011

L'ALLIEVA


L'allieva

Alessia Gazzola

Longanesi

€ 18,60

Alice Allevi, specializzanda in Medicina legale, è una ragazza impacciata, timida, pasticciona, ma dotata di acume e intuito, profondamente amante del suo lavoro, ma ogni giorno deve confrontarsi con la giungla dell'Istituto di Medicina legale, un luogo in cui il servilismo e l'arrivismo la fanno da padroni: rapporti tesi con i colleghi specializzandi da cui è vessata, il continuo giudizio negativo dei suoi superiori, come Claudio Conforti (ex collega e ora suo superiore e forse qualcosa di più), che non la prendono molto in simpatia, ritenendola inadatta a svolgere quel lavoro, la sfortuna che la perseguita per gran parte della giornata. Incoraggiata dall'affetto delle amiche e dalla carica vitale della coinquilina giapponese, Alice procede convintamente nel suo percorso fino all'omicidio di Giulia Valenti, che rappresenta l'occasione per dare un forte impulso alla sua carriera o affossarla per sempre. E' noto che, per un medico legale, un sopralluogo sulla scena del crimine è ordinaria amministrazione, una parte del lavoro quotidiano, ma questo omicidio è troppo particolare: pochi giorni prima, in un negozio d'abbigliamento, Alice ha incrociato di sfuggita Giulia, con cui ha scambiato poche parole, sebbene le due non si conoscessero. Quando Alice entra nel lussuoso appartamento romano di Giulia e vede il suo cadavere, la testa circondata da una pozza di sangue, capisce che quello non sarà un caso come gli altri: stavolta conosce la vittima e non riuscirà a portare avanti il caso con il necessario distacco professionale; al contrario, colleziona una serie di figuracce e rischia anche la radiazione dall’albo. E in tutto questo riuscirà anche ad innamorarsi.
Il libro, che rappresenta l'esordio per Alessia Gazzola, non è catalogabile né nel genere thriller, né in quello noir, né in quello giallo; senza voler scomodare una grande, il genere ricorda vagamente quello di Kathy Reichs con la sua Temperance Brennan: nel romanzo della Gazzola, sembra esserci un po' di thriller, un po' di noir, un po' di giallo e una vena sentimentale che scorre in sottofondo. Il romanzo è ben scritto, la lettura fila via liscia, in maniera veloce, in men che non si dica si giunge all’ultima pagina, sebbene il ritmo non è altrettanto allegro, senza colpi di scena capaci di dare una scossa alla storia.

mercoledì 2 marzo 2011

DOLORE E MEDIA

Dolore, sgomento e rabbia sono i sentimenti comuni che ci animano in questo momento, nel quale continuiamo a interrogarci sul come e sul perché sia potuto succedere e facciamo ipotesi più o meno fantasiose. Il triste dato di fatto è che Yara Gambirasio non c'è più, l'adolescente ginnasta di Brembate di Sopra, nella Bergamasca, che si affacciava alla vita ha dovuto dire addio al mondo, soccombendo sotto le grinfie di un mostro che ha agito senza alcun ragionevole fine. Le ipotesi degli investigatori si rincorrono, hanno bisogno di essere ancora provate in maniera precisa: ma, in fin dei conti, cosa ci interessa delle ipotesi? Noi vogliamo solo la verità e la sua famiglia prima di tutto, verità alla quale si arriva passando necessariamente attraverso le ipotesi - non c'è dubbio; ma, dato che questa incombenza non ci compete, quale senso ha dedicare intere trasmissioni televisive al caso Yara? Non voglio fare la predica - che, peraltro, ho già fatto in altre occasioni - su come si comporta la televisione di fronte ai fatti di cronaca: è noto a tutti che la curiosità morbosa che pervade il grande pubblico della televisione fa sì che alcuni programmi possano continuare ad esistere e ad essere trasmessi. Dinanzi al "dolorismo a puntate" segnalato con veemenza dal presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli, mi sento di dire che la caccia mediatica al colpevole è senza pace, anche questa volta, appesa ai pareri di avvocati, criminologi, giornalisti, scrittori, soubrette e chi più ne ha, più ne metta. Le ipotesi di reato e le agenzie fioccano durante queste trasmissioni, talora in contrasto le une con le altre, ma l'importante è fare gli ascolti, abbeverare i curiosi di particolari truculenti ed ipotesi fantasiose.
In netto contrasto con questo atteggiamento, i familiari di Yara hanno sempre mantenuto uno stretto riserbo su tutto quanto riguardava la giovane figlia: hanno preferito tenere il dolore tra le mura domestiche, non darlo in pasto ai mass media, consolarsi in famiglia per quanto possibile, evitare la spettacolarizzazione della tragedia. I precedenti - Novi Ligure, Cogne, Avetrana - non potevano che far rabbrividire, l'angoscia e la desolazione per un fatto tanto triste sono state travolte dall'insaziabile voglia di scoop e di condivisione della tragedia che attanagliano i mezzi di informazione. Ma per Yara è stato diverso, il dolore è apparso dolore vero perché mantenuto nascosto da occhi indiscreti, il dispiacere è apparso dispiacere vero per la scomparsa di una figlia così giovane e così brava, lo struggimento è apparso struggimento vero di fronte alla mancanza di notizie della propria figlia per tre mesi.
La Bergamasca non attraversa un periodo troppo felice: a distanza di pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Yara, viene ritrovato anche il corpo di Daniel Busetti in provincia di Torino, precisamente a Baldissero Canavese. Un incidente stradale con tre feriti, un sms ad un'amica o alla sua ragazza ("Ho fatto un incidente megagalattico. Ti amo. Addio"), la fuga verso Milano e da lì, in treno, verso Ivrea, un veloce ricovero in ospedale e il mattino successivo l'ultima tappa, Baldissero Canavese per raggiungere Damanhur, "un'eco-società basata su valori etici e spirituali". I motivi del gesto sono difficili da ipotizzare e capire: la paura dell'arresto?, il timore di cosa avrebbero potuto dire i genitori? e... cos'altro? La vergogna per il gesto avventato finito poi non troppo tragicamente? Resta un mistero, per ora, la motivazione che ha spinto il giovane Daniel ad allontanarsi da casa, fuga che si è conclusa drammaticamente: il primo responso del medico legale dice "assideramento". Non eravamo nella sua testa, non possiamo dire quali pensieri lo hanno portato al folle gesto, possiamo ipotizzarli sebbene a fatica. Resta soprattutto il grande dispiacere per un'altra vita, l'ennesima, terminata troppo prematuramente.
Tuttavia, non posso concludere non meditando su questi due fatti di cronache: riguardo Yara, il dispiacere per la sua morte si mischia a profonda rabbia nei confronti dell'orco che l'ha uccisa, segno di una società impazzita e ormai alle corde, capace di uccidere una bambina come si ammazza una mosca. E, sull'altro versante, lo sgomento è tanto: l'aver causato un incidente non può spiegare la fuga, dovevano esserci problemi - per Daniel - ignoti a chi gli stava intorno, che, dopo l'incidente, lo hanno convinto a scappare e a sottrarsi alle sue responsabilità.

martedì 1 marzo 2011

DA NOVE ANNI SENZA LIRA: E C'E' CHI LA IGNORA

Se potessi avere mille lire al mese,/ senza esagerare, sarei certo di trovar/ tutta la felicità!, cantava l'alessandrino Gilberto Mazzi qualche decennio fa.


E noi, alcuni lustri dopo, ci troviamo a commemorare la lira, che, dopo centoquarant'anni di prestigiosa carriera, a partire dal 1° marzo 2002 ha ceduto definitivamente il passo all'euro, la moneta unica adottata da molti Stati europei. Oggi, 1° marzo 2011, sono esattamente nove anni che abbiamo detto "addio" alla lira, abbiamo dovuto impratichirci con i centesimi, abbiamo maledetto chi ha deciso di accettare l'euro come moneta unica, abbiamo rimpianto le cento, duecento e cinquecento lire cui eravamo tanto abituati, abbiamo combattuto l'inflazione e i prezzi pazzi. E abbiamo passato tante altre (dis)avventure con l'euro, specie nel momento di transizione, quando non si aveva altra moneta che l'euro, ma la testa era ancora abituata a lavorare con la lira: "Questa cosa costa 10 euro, che sono ventimila lire" e via dicendo. La conversione dell'importo, grazie ad una semplice moltiplicazione per due da euro in lire (il valore di cambio di un euro è stato fissato a 1936,27 lire), è stato un comodo paracadute che, nei primi mesi, ci ha salvato da spese folli e ci ha aiutato a prendere dimestichezza con la nuova valuta. Ma se qualcuno, specie gli anziani, ha avuto qualche difficoltà iniziale e poi - tanta era l'abitudine - non ha abbandonato la conversione mentale, per molti altri, me incluso, è ormai normale pensare solo ed esclusivamente in euro e paragonare tra loro i prezzi degli articoli sempre e solo in euro: in fin dei conti, il parametro attuale di riferimento è l'euro, si utilizza solo quello, che utilità avrebbe la conversione, se non per un mero esercizio mentale?
Rispetto a chi ha avuto la fortuna di avere queste difficoltà, di impazzire con gli zeri dei centesimi o di dover continuamente ricordare quanto costava quel dato oggetto in lire, esiste una generazione di persone cresciute solo ed esclusivamente con l'euro: sono gli under 25, i quali non hanno mai usato la lira; addirittura, molti di questi la considerano una vecchia moneta, altri non ne hanno mai sentito parlare, altri ancora la ricordano perché ne hanno sentito parlare dai nonni o dai genitori. Secondo qualche esperto, la presenza di una generazione di "nativi" ovvero nati con l'euro, contribuisce a rafforzare la globalizzazione e a stabilizzarla: chi è cresciuto con la lira tende a distorcere i prezzi volendo mettere a confronto due ere che sono di per sé non paragonabili, mentre i più giovani "allontanano l'inflazione" perché non si abbandonano a tali ragionamenti, ma semplicemente pensano solo in euro.
Ormai, dopo nove anni, possiamo dire di essere maturati e di trovarci a far paragoni con la lira per puro spirito o al massimo al livello di conversazioni vaghe come "non ci sono più le mezze stagioni". La verità è che ci siamo abituati all'euro, così come si impara a guidare o ad andare in bici, eseguendo un'azione in maniera meccanica, senza più pensare a come la si è fatta la prima volta. Nonostante tutto, abbiamo bistrattato spesso la moneta unica, principalmente perché è arrivata nelle nostre vite nel momento peggiore dell'economia, quando la crisi attanagliava il nostro sistema economico come non ci succedeva da decenni, e ad essa abbiamo attribuito tanti problemi; e allora i nostalgici sono scesi in campo per difendere il vecchio conio, senza considerare che il suo potere d'acquisto era scarso e che era spesso oggetto di svalutazioni. L'euro, in fin dei conti, è più stabile e meno soggetto ai venti dell'economia, permette di muoversi nell'ambito della Comunità europea senza l'assillo di dover cercare un ufficio cambi e di far muovere merci in maniera facile, hanno replicato i fan dell'euro.
Chissà se siamo tutti euro-contenti con gli Eurocontanti, come dice er Piotta, o se era meglio quando si sperava di avere mille lire al mese - che, tra l'altro, equivarrebbero a circa mille euro di oggi, ma con un potere d'acquisto abissalmente diverso.

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